Ultimo aggiornamento: 26 maggio 2025
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PFAS è l’acronimo per i poli- e per-fluoroalchili, un gruppo di oltre 10.000 sostanze sintetiche. Seppur molto diverse tra loro per proprietà e utilizzi, sono accomunate da una struttura formata da atomi di carbonio e fluoro che conferisce loro un’elevata stabilità e resistenza a condizioni estreme, come alte temperature, pressioni ed esposizione a liquidi o grassi, e li rende ideali per realizzare diversi oggetti di uso comune. Tra i vari utilizzi, i PFAS vengono usati per produrre farmaci, cosmetici, pesticidi, imballaggi per cibo, vernici, tessuti impermeabili, pentole antiaderenti e numerosi altri prodotti. Tuttavia, oltre ai vantaggi, queste sostanze comportano anche dei rischi per la salute e l’ambiente, motivo per cui sono conosciute anche come inquinanti eterni. Essendo difficili da degradare, i PFAS possono accumularsi all’interno degli organismi con cui vengono in contatto, inclusi gli esseri umani. Inoltre, possono essere rilasciati nell’ambiente in ciascun processo di produzione, dalla loro sintesi fino allo smaltimento.
Sempre più studi provano che i PFAS sono rischiosi per la salute e l’ambiente, ma rimane difficile capire in quale misura, dal momento che sono migliaia di composti differenti. Per determinare il rischio, si devono considerare essenzialmente due aspetti: le proprietà delle singole sostanze e le concentrazioni a cui si è esposti.
Per quanto riguarda il primo punto, per esempio alcuni PFAS possono rimanere nel corpo giorni dopo l’esposizione, altri anni.
Per quanto riguarda il secondo, nel 2020 l’Autorità europea per la sicurezza del cibo (EFSA) ha definito sicura un’esposizione settimanale alle 4 forme di PFAS più diffuse (ovvero PFOA, PFOS, PFNA e PFHxS) entro i 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo (ng/Kg). Secondo l’EFSA, il superamento di questa soglia può sopprimere l’attività del sistema immunitario, e quindi per esempio ridurre l’efficacia dei vaccini. Queste sostanze però possono interferire anche con altri meccanismi biologici e compromettere il funzionamento del sistema endocrino e il metabolismo dei lipidi, indurre stress ossidativo e infiammazioni croniche. Di conseguenza, l’azione dei PFAS può promuovere infertilità, osteoporosi, diabete, e lo sviluppo di tumori, in particolare dei testicoli e reni.
Sulla base dei dati esistenti su animali di laboratorio e pazienti, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha stabilito che due dei PFAS più conosciuti, PFOA e PFOS, possono essere associati a un aumento dello sviluppo dei tumori. I PFOA sono stati classificati come cancerogeni per gli esseri umani (gruppo 1), perché riducono l’azione del sistema immunitario, e predispongono allo sviluppo del tumore ai reni e ai testicoli. Invece, i PFOS sono stati classificati come possibili cancerogeni per gli esseri umani (gruppo 2B). In questo caso, i risultati sulle persone non sono stati robusti a sufficienza per affermare che i PFOS causano il tumore ai testicoli, al seno e alla tiroide. Il rischio è però possibile e dovrà essere accertato con ulteriori analisi.
Per gli esseri umani, le principali vie di contatto con i PFAS sono l’acqua e gli alimenti. Questi composti si trovano nell’aria e nelle acque sotterranee, per cui possono contaminare i terreni e venire assimilati da specie sia animali sia vegetali. Per quanto riguarda gli alimenti, maggiori quantità di PFAS sono state ritrovate in particolare in pesce, uova e carne e verdura, soprattutto quella venduta come pronta da mangiare. Tantissime variabili possono però influenzare la concentrazione di questi composti nel cibo, come il modo in cui viene prodotto, trasportato e impacchettato. Al momento, è quindi difficile indicare con sicurezza quali alimenti evitare per ridurre l’esposizione.
In misura minore, un’altra fonte di contatto sono le pentole antiaderenti, contenitori per l’imballaggio del cibo e cosmetici, tutti quegli oggetti di uso quotidiano che contengono e possono rilasciare i PFAS. Anche il tipo di professione o del luogo in cui si vive può avere un impatto negativo sulla salute. Per esempio, i vigili del fuoco e i muratori che lavorano con estintori e vernici che contengono PFAS possono essere più esposti del resto della popolazione. Inoltre, coloro che vivono in prossimità di aziende che producono o utilizzano i PFAS corrono maggiori rischi di esposizione.
Negli ultimi anni diversi enti europei, nazionali e locali si sono mossi per limitare la diffusione dei PFAS. Da un lato, gli interventi mirano a disincentivare l’utilizzo dei PFAS e imporre dei limiti alle principali fonti di contaminazione, ovvero cibo e acqua; dall’altro, normano direttamente la sua produzione industriale. Per esempio, nel 2022 l’Unione europea ha stabilito i livelli massimi dei principali PFAS che possono essere presenti in uova, pesce, carne. A gennaio 2026, invece, entrerà in vigore la direttiva del 2020 indetta dall’Unione europea per cui nell’acqua potabile non potrà essere superata la soglia di 500 nanogrammi per litro (ng/L) di PFAS totali, e quella di 100 ng/L riguardo la somma di 20 molecole. In Italia, a questa misura si aggiunge quella del decreto-legge emanato ad aprile 2025, che impone una soglia di 20 ng/L per la somma dei 4 composti più conosciuti (PFOA, PFOS, PFNA e PFHxS). Quest’ultimo limite è quindi più restrittivo di quello europeo, anche se rimane superiore a quelli di Paesi come Danimarca e Svezia, dove è fissato rispettivamente a 2 e 4 ng/L.
Altre misure riguardano la produzione industriale. Nel 2023 l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) ha proposto di bloccare del tutto la produzione di migliaia di PFAS e continuare in forma limitata soltanto quella di alcune sostanze, che non possono essere ancora sostituite con altri materiali. Al momento, una commissione di esperti sta raccogliendo commenti e informazioni per migliorare e aggiornare i dati disponibili sui tipi di PFAS e i loro utilizzi. Per come è stata concepita, questa proposta potrebbe ridurre la diffusione della quasi totalità di queste sostanze. Tuttavia, la sua messa in pratica può essere ostacolata dall’estrema complessità di individuare e valutare i singoli PFAS e dalle stesse industrie a cui vien richiesto di cambiare il proprio sistema di produzione in modo radicale. Il rischio principale è che la proposta venga modificata a favore di una versione meno incisiva e quindi meno efficace. In modo laterale, il Regolamento europeo sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio ha di recente definito le soglie massime di PFAS che potranno essere contenute negli imballaggi a contatto con gli alimenti dei prodotti che saranno commercializzati in Europa a partire da agosto 2026.
Anche a livello locale sono state avviate delle iniziative per limitare la diffusione dei PFAS. Per esempio, dal 2013 l’acqua proveniente una cinquantina di pozzi nella provincia di Vicenza, in Veneto, è stata messa in sicurezza con l’installazione di filtri a carbone attivo dopo che erano stati rilevati alti livelli di PFAS.
Oggi non è possibile evitare del tutto l’esposizione ai PFAS nella propria vita quotidiana; le azioni strutturali da parte delle istituzioni sono prioritarie per avviare cambiamenti radicali e risolutivi. Tuttavia, alcune piccole azioni possono aiutare a ridurre l’esposizione individuale. Tra queste, si può limitare l’utilizzo di pentole e padelle antiaderenti composte da PTFE (politetrafluoroetilene) quando sono graffiate o danneggiate, non scaldare il tegame vuoto e areare gli ambienti quando si cucina. Per quanto possibile, si può cercare di ridurre il consumo dei prodotti che contengono i PFAS.
Alla luce dei dati disponibili, consumare l’acqua del rubinetto in Italia, invece, non è da sconsigliare a priori. Sebbene siano frequenti notizie che allarmano sulla contaminazione dell’acqua potabile, i regolari monitoraggi da parte delle ARPA e le Aziende sanitarie locali (come ASL e ATS) indicano percentuali sotto le soglie massime indicate dalla direttiva dell’Unione europea nella quasi totalità del territorio italiano. Al momento, si può dire che nella maggior parte dei Comuni i livelli di PFAS nelle acque italiane espongono concentrazione minori di 4,4 ng/L, il limite massimo di sicurezza indicato dall’EFSA. In caso di dubbi, l’accesso ai dati è di solito disponibile sul sito dell’ARPA, ASL o simili della propria Regione (per esempio il sito di ARPA Piemonte).
Camilla Fiz